Qualche giorno fa mi ha fatto una telefonata. “Elisabetta mia, lo sai che ti voglio bene, vero?”
Il suo accento napoletano non si notava quasi più, la sua voce era meno profonda.
Ho capito all’istante che era un addio.
Dino è morto. Con tutto il lavoro che c’era ancora da fare. Non gli ho ancora nemmeno consegnato il riassunto del libro che mi ha chiesto di leggere per la nipote Giada. Immagino la sua mitica scrivania straripare di copioni da riscrivere, con lui che quasi ci spariva in mezzo. Non è mai il momento giusto per morire, ma per De Laurentiis lo era meno che per chiunque altro.
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Ieri stavo riguardando il biglietto che ha mandato a mio figlio in occasione del battesimo. Non aveva una bella scrittura, Dino, però era chiara. Sul biglietto aveva scritto: “Andrea, ti auguro una vita serena, e spero che un giorno diventerai un gran lavoratore come tua mamma”.
Ecco, il più grande regalo che Dino mi ha fatto è stato l’amore per il lavoro. Il lavoro era la sua ragione di vita, una passione travolgente che ha travolto anche me. Per dodici anni (che fino a poco tempo fa pensavo fossero undici perché essendo una capra in matematica da 1999 a 2010 avevo calcolato 11) è stato la mia priorità assoluta in ogni momento, persino quando partoriente mi sono presentata in ospedale con le doglie e il laptop sotto il braccio, in caso arrivasse un copione proprio in quei giorni. Qualcuno mi compatirà, se non peggio. Ma quel qualcuno non sa quale soddisfazione, quale gioia si provasse a far contento Dino. Aveva l’entusiasmo di un bambino, “Sei un angelo, come farei senza di te!” mi diceva quando gli consegnavo una traduzione nei tempi (folli) in cui se l’aspettava. Lavoravo spesso di notte, perché lui voleva leggere il materiale in giornata e le cinque di pomeriggio di Los Angeles erano le due di notte qui. Ma la felicità di quei momenti, nessuno me la ridarà mai.
Certo mi ha rovinato vari compleanni e vacanze coi suoi copioni urgentissimi che non potevano aspettare un minuto di più, mi ha fatto litigare con amiche e fidanzati piantati in asso nel mezzo di una gita o di una festa, ma raramente mancava di farmi una telefonata per ringraziarmi, e non perdeva mai occasione per farmi sentire preziosa e insostituibile. Dino aveva questo di speciale: ti faceva sentire indispensabile. E poi era divertente, spiritoso. Ricordo certe battute fulminanti con cui gli capitava di liquidare i film o gli attori e le attrici che non gli piacevano. Lavorare per lui era meglio che andare alle terme: un piacere e un divertimento.
Entrammo in contatto per caso, alla fine degli anni Novanta. Lui cercava un traduttore “bravo ma soprattutto veloce, perché uno bravo ma lento non serve” per un romanzo americano che voleva leggere in italiano, e chiese alla sua efficientissima segretaria qui in Italia di trovarglielo. Elvira chiamò la Feltrinelli di Roma, che girò la richiesta alla sede centrale di via Andegari a Milano, di cui ero una delle tante oscure collaboratrici. Non so come, la Feltrinelli di Milano le diede il mio nome, ma questo l’avrei saputo soltanto dopo. Qualche ora più tardi mi suonò il telefono a casa. “Vorrei parlare con Elisabetta, sono Dino De Laurentiis.” Pensai a uno scherzo, e risposi che sì, buonanotte, e io ero Elisabetta d’Inghilterra. Lui disse soltanto “Ah, dalla voce la facevo più giovane,” e mi chiese quanto ci avrei messo a tradurre un manoscritto di 800 pagine. Un uomo che non aveva tempo da perdere. Non ricordo cosa risposi né quanto impiegai a fare quel lavoro. Ricordo solo il giorno in cui mister D. mi chiamò dalla sua villa di Capri e mi disse: “Elisabetta, sono trent’anni che cerco una come te. Vuoi venire a Los Angeles a lavorare con me?” Era martedì. La domenica alle 10.25 ero sul volo Alitalia Malpensa-LAX.
Lui e la moglie Martha mi ospitarono un mese a casa loro, il tempo di trovarmi una sistemazione. Dino mi svegliava alle cinque del mattino al grido di “È ora di mettersi a lavorare,” e ci sedevamo al tavolo rotondo del soggiorno a tagliare e spostare scene di film. È cominciata così l’avventura più bella della mia vita, che è continuata ininterrotta anche dopo il mio rientro in Italia per motivi personali e si è conclusa oggi, perché la morte ha sorpreso il padre del cinema nel suo letto e senza tanti preamboli se l’è portato via. Mi piacerebbe tanto raccontarla, quest’avventura, e un giorno di questi lo farò. Magari qui sul blog.
Vorrei raccontare le piccole cose che me lo facevano amare più delle grandi, quelle per cui il mondo lo considerava una leggenda. Di come si arrabbiava quando non mi trovava subito al telefono, per esempio, e se anche rispondevo al secondo tentativo, a dieci secondi dal primo, lo sentivo sbraitare: “Elisabetta, dove diavolo sei? Stai sempre in vacanza!! E perché non rispondi mai a ‘sto cazzo di telefono!?!” Certo la pazienza non era il suo forte. Pretendeva che gli riassumessi un thriller di 500 pagine in tre minuti, e se ce ne mettevo quattro diceva che mi dilungavo con particolari inutili. Quando stavo traducendo qualcosa che era particolarmente ansioso di leggere mi chiamava ogni quarto d’ora per chiedermi quante pagine mi mancavano. Una volta dovetti rispondergli che se avesse continuato a interrompermi non avrei mai finito. E poi capiva al volo quello che gli altri volevano dirgli, col risultato che spesso non li lasciava parlare. Mi dava una nuova sceneggiatura da leggere, poi mi chiedeva: “Allora, come ti sembra?” Non facevo in tempo a iniziare una spiegazione ragionata che m’interrompeva: “Ho capito, è una stronzata. Dai, passiamo ad altro”. Vorrei raccontare quanto apprezzasse che gli dicessi sempre la verità, anche quando non era quella che voleva sentire, o di quando davanti a grandi attori o registi facevamo commenti tra noi in italiano per non farci capire, e ci divertivamo come scolaretti. Vorrei dire delle decine di post-it con le sue osservazioni che attaccava alle pagine di sceneggiatura, di come bastasse l’inquadratura di un cimitero per fargli scartare un copione, di come i film per lui fossero sempre troppo lunghi. Di quanto amasse le figlie, la famiglia, e di come non ci fosse impegno che tenesse quando giocava la Lazio, e negli ultimi anni, l'Inter. Vorrei dire che se mi sono sentita una persona speciale fino a oggi, lo devo al fatto di aver lavorato per lui.
Qualche giorno fa mi ha fatto una telefonata. “Elisabetta mia, lo sai che ti voglio bene, vero?” Il suo accento napoletano non si notava quasi più, la sua voce era meno profonda. Ho capito all’istante che era un addio.
Con gli occhi che già bruciavano, ho tentato di rispondere con leggerezza: “Certo che lo so, dottore”. Lo so, e gliene voglio anch’io. Spero tanto di rivederla, un giorno, da qualche parte. E naturalmente avrò il computer con me.